Intervista di Mirella Castigli ad Eva Ciampelli

DIPENDENZE DIGITALI: NESSUN DORMA PRIMA PARTE

In questo nostro e-book parliamo delle Tre D del Digitale nell’anno della pandemia: dipendenze, distrazioni e didattica a distanza (DAD). Tre D che rischiano di trasformare gli adolescenti occidentali in ragazzi eccessivamente connessi, a un passo dal diventare “gli Hikikomori post-Covid”? E se questo è un rischio non troppo remoto, quali consigli possiamo offrire ai ragazzi e alle famiglie preoccupate dal rischio delle dipendenze?

Per risponderti a questa domanda, occorre fare prima chiarezza su ciò che si intende per Hikikomori. “Hikikomori” è un termine giapponese che significa “tenersi in disparte”.

È un fenomeno che si riferisce a coloro che si ritirano dalla vita sociale per almeno 6 mesi, di solito molto giovani (14-30 anni).

Gli adolescenti dunque, che ne sono principalmente coinvolti, smettono di uscire ed evitano le relazioni sociali di qualsiasi tipo, ritirandosi spesso da scuola e da qualsiasi attività.

Contrariamente a ciò che si crede, l’Hikikomori non è causato dalla dipendenza da internet. Infatti, casomai è l’instaurarsi di una dinamica di ritiro sociale continuato che sembrerebbe portare a una maggiore probabilità di utilizzare eccessivamente internet.

Ciò che però potrebbero avere in comune i ragazzi privati della socialità a causa della pandemia con gli Hikikomori è la possibile difficoltà a tornare alla normalità e alla quotidianità una volta terminato “l’isolamento forzato”.

Rimettersi in moto dopo mesi a livello relazionale in una fase di cambiamenti come l’adolescenza può essere davvero difficile.

Al contempo, iniziare ad evitare i rapporti sociali per esempio perché ci si sente “fuori luogo” o “diversi”, porta in un circolo vizioso a aumentare le difficoltà relazionali, e a sentirsi così ancora più “strani”, a disagio e “diversi”. Il ritiro sociale infatti permette in alcuni casi di evitare le richieste e le aspettative sociali, portando provvisoriamente a una sensazione di benessere o di sollievo. Questo forse è proprio quello che potrebbe accomunare un difficoltoso rientro alla “normalità” post pandemico per i giovani adolescenti con gli hikikomori.

In un mondo isolato come quello affetto dalla pandemia di Covid-19, credo che trovare un equilibrio tra ciò che si può definire “dipendenza” e ciò che invece è una “risorsa” sia particolarmente complesso. Penso al fatto per esempio, che gli unici contatti durante la “fase 1” siano stati possibili esclusivamente tramite video chat, anche quando coinvolgevano parenti o amici stretti. Penso all’importanza che ha avuto la DAD per garantire una continuità e una routine nella vita dei ragazzi, e al contempo penso a bambini ore e ore di fronte ad uno schermo, alle difficoltà a seguire le lezioni, ai problemi di connessione, allo stress per i genitori in telelavoro, alle donne che hanno dovuto sacrificare il lavoro.

Penso alle “vite sospese”, quasi messe in pausa.

Anche il “male minore” ha ed avrà delle conseguenze.

Ciò che però mi sentirei di dire ai genitori e alle famiglie che vivono o hanno vissuto difficoltà nella gestione dei figli, in cui è presente disagio o forte ritiro sociale, è di non attendere troppo, di cercare aiuto il prima possibile e al contempo di cercare di comprendere cosa accade al proprio figlio.

Le dipendenze infatti possono essere una sorta di “rifugio”, una fuga da una sofferenza percepita come intollerabile. Questa può essere “presa in carico” da uno psicoterapeuta o da un professionista della salute mentale.

Siamo partiti dai giovani, perché le scuole chiuse sono sinonimo di “vite sospese”. Ma Dipendenze e Distrazioni colpiscono tutte le fasce d’età. Quali sono le conseguenze psichiche che dobbiamo aspettarci dal prolungato lockdown per motivi sanitari? La politica dovrebbe già programmare qualcosa per far fronte a quest’onda che monta da lontano, ed, eventualmente, che cosa?

L’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto e che tutt’ora stiamo vivendo ha portato ad una rivoluzione nella nostra quotidianità e ad un’attenzione selettiva sul virus, portandoci a una condizione di costante allerta e paura. I media comunicano quotidianamente numeri di decessi e la paura filtra da ogni notizia.

Già alcuni studi (Huang e Zhao, 2020) hanno mostrato come l’impatto del COVID-19 possa portare a un peggioramento della salute psicologica, incrementando per esempio sintomi depressivi, disturbi d’ansia, ansia generalizzata, disturbi del sonno.

Il COVID ha avuto (ed avrà) un forte impatto non soltanto su coloro che lo hanno vissuto “sulla loro pelle, come i ricoverati nelle terapie intensive e gli operatori sanitari, che potrebbero avere una maggiore probabilità di sviluppare disturbi da stress post traumatico (PTSD), ma anche sulle persone isolate, in quarantena, lontane dai propri cari.

Il virus ha provocato infatti numerose preoccupazioni, non tutte relative all’ammalarsi. Basti pensare alle preoccupazioni lavorative ed economiche che ha portato.

Molti temono di perdere il lavoro, alcuni lo hanno già perso, ed intravedere una speranza in tutto questo, per sé e per i propri cari, può essere difficile.

In generale la pandemia ha portato e porterà a risonanze psicologiche sull’intera popolazione, che d’un tratto, si è ritrovata tagliata fuori dalla vita sociale, dagli affetti, dalla quotidianità.

Particolarmente deleteria per la salute psicologica è infatti la mancanza di contatto con l’altro, non potersi più baciare, toccare, dare la mano con spontaneità.

Lo stare lontano dagli altri sembrerebbe per esempio una delle variabili più importanti per quanto riguarda lo sviluppo di una sintomatologia ansiosa. In quanto esseri umani infatti, non possiamo prescindere dall’altro: davvero siamo animali sociali, che per la sopravvivenza, specialmente ma non soltanto da piccoli, hanno bisogno degli altri esseri umani.

A causa delle conseguenze della pandemia, il disagio e la sofferenza psicologica sono dunque in aumento.

L’OMS definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”.

Spesso però la salute mentale è tralasciata, o erroneamente non viene considerata alla stregua di quella fisica. Penso che un aiuto tempestivo in caso di sofferenza psicologica sia essenziale, e penso che dovrebbe essere alla portata di tutti.

Le politiche del nostro Paese dovrebbero considerare che la salute psicologica è un diritto, proprio adesso che la pandemia la mette a rischio.

Intervenire in modo capillare potrebbe essere possibile per esempio, con l’introduzione di una figura come quella dello psicologo di base, da affiancare al medico di base che tutti abbiamo. Ciò forse consentirebbe di prendersi cura della persona a 360 gradi, normalizzando il fatto che, in alcuni momenti della nostra vita, può succedere di soffrire di disturbi a base psicologica, e dando consapevolezza del fatto che esistono professionisti della salute mentale in grado di aiutarci.

Durante il primo lockdown le persone danzavano e cantavano in terrazza, applaudivano medici ed infermieri in corsia; durante la seconda quarantena il clima si è invece indurito, fatalmente incupito: le persone si sono rese conto del rischio di perdere il lavoro o di veder ridimensionato il proprio giro d’affari o di dover abbandonare lo stile di vita precedente alla pandemia. Si respirano rabbia e frustrazione. Oltre al fenomeno dei NoVax e dei negazionisti, assistiamo alla proliferazione di Fake News, durante la più grande vaccinazione di massa di sempre. Siamo in grado di affrontare, dal punto di vista cognitivo, questi fenomeni? Ci sono “antidoti” contro quello che intravediamo addensarsi all’orizzonte?

Credo che la “seconda ondata” abbia messo tutti a dura prova.

Avevamo “stretto i denti” a Marzo, con la prima quarantena, facendo enormi sacrifici sia per quanto riguarda il distanziamento sociale, la lontananza dai propri cari, che dal punto di vista economico. Forse la seconda ondata, quando il vaccino sembrava ancora lontano, e i casi di nuovo in rapida ascesa, ha aumentato la frustrazione di tutti, specialmente perché nonostante gli enormi sforzi compiuti in primavera, la situazione è apparsa nuovamente catastrofica, come se non ci fosse mai una fine. Quando torneremo ad abbracciarci, quando torneranno le cose alla normalità? Il mondo tornerà ad essere un posto sicuro e prevedibile?

La sensazione è stata quella di dover ripartire da capo, di instabilità perpetua, e forse anche di non poter fare niente per cambiare le cose.

Come se ci fosse un senso di impotenza a sopraffarci, tanto forte da richiedere alla nostra mente emozioni più tollerabili. Infatti tutto questo potrebbe talvolta portarci a sperimentare emozioni così intense e percepite come intollerabili da selezionare (più o meno consapevolmente) delle modalità emotive e comportamentali che ci aiutano a “tenerci in piedi”.

Alcune persone per esempio potrebbero essere costantemente arrabbiate, insultare tramite social network, scagliarsi contro i politici e il governo, rifiutare il “sistema”.

Forse questa rabbia li tiene in qualche modo lontani dalla paura per la propria vita, da un profondo senso di solitudine o di disperazione.

E poi c’è la paura, che chissà, a volte è talmente potente da far dubitare di tutto e tutti, da far negare l’esistenza del virus, oppure che faccia credere alla prima notizia che circola sul web.

Sebbene in quanto esseri umani sia naturale la tendenza a ricercare maggiori esperienze piacevoli e allontanarsi dal dolore, quello che possiamo provare a fare è cercare di convivere con le emozioni che sembrano a volte sopraffarci, riconoscendole e lasciandole andare, anziché instaurarci una lotta per sopprimerle.

Entrando in contatto con noi stessi e ascoltando anche le nostre emozioni spiacevoli potremmo avere importanti informazioni su noi stessi e sul nostro ambiente, preparandoci ad azioni più efficaci e utili.

La paura per esempio ci aiuta ad affrontare un pericolo e a sopravvivere, la tristezza ci aiuta a cercare strategie diverse per raggiungere i nostri obiettivi.

A volte quando le emozioni “negative” sono molto intense cerchiamo di sopprimerle, ma così facendo non otteniamo che di alimentarle.

Possiamo al contrario imparare a riconoscerle per poi osservare il loro decrescere e diminuire, senza opporvi resistenza, soltanto notando che sono là. Assumendo un atteggiamento non giudicante verso noi stessi, infatti, potremmo scoprire che il nostro andamento emotivo tende a raggiungere un picco ma successivamente a diminuire dopo pochi minuti, se non tentiamo di resistergli.

Per concludere, non credo che esista un antidoto che elimini la nostra sofferenza, ma una modalità mentale e gli strumenti per alleviarla consentendoci di vivere serenamente la nostra quotidianità, sì. Ciò può avvenire tramite la relazione terapeutica con uno psicoterapeuta, laddove la persona non sia attualmente in grado di fare appello alle proprie risorse.

In vista di un vaccino che sembrerebbe consentirci l’uscita da questo periodo critico, si iniziano a intravedere i primi segnali di speranza. Tuttavia cerchiamo di accettare in maniera non giudicante i nostri alti e bassi ancora presenti, e le possibili difficoltà di tornare alla normalità.

Permettiamoci di esperire le emozioni, positive o negative che siano. In questo modo potremmo essere in grado di poter man mano riacquisire e riorganizzare la nostra vita nel modo più benefico possibile.

Eva Ciampelli, classe 1991, Psicologa. Studentessa specializzanda come Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale presso la Scuola di specializzazione “Scuola Cognitiva” di Firenze. Mamma di Nicola da pochi mesi.

Fonti:

DIPENDENZE DIGITALI: NESSUN DORMA PRIMA PARTE

Intervista di Mirella Castigli